RUBRICA: "La solitudine del critico"

LETTERATURA E VERITA' OGGI di Romano Luperini
Sino a quindici anni fa, in un convegno di teorici della letteratura, un titolo come Letteratura e verità sarebbe suonato desueto; o tutt’al più si sarebbe risolto in una tautologia: letteratura è verità sub specie letteraria, declinata in termini esclusivamente linguistici e autoreferenziali.

Tutto era cominciato con lo strutturalismo, per cui il testo è chiuso in se stesso, e può essere considerato solo nella sua immanenza, autosufficienza e autoriflessività. Il testo è linguaggio riflettente se stesso, e non esiste referente all’infuori del linguaggio. Il mondo non esiste, e l’autore stesso è posto in questione. Il soggetto viene cancellato come un ingombro inutile. Doveva restare solo il testo, nella sua assolutezza.

Con il poststrutturalismo si introduce, o comunque si rafforza significativamente, il concetto di intertestualità. Anch’esso implica l’annientamento della referenzialità. Dal testo chiuso si passa al testo aperto, ma si tratta solo di un’apertura ad altri testi. Anche nell’ottica intertestuale la materialità del mondo non esiste più. Strutturalismo e poststrutturalismo, nonostante le reciproche opposizioni polemiche che hanno segnato la nascita del secondo, sono insomma legati a filo doppio.

Se Auerbach nel 1946 parlava ancora di mimesis e di rappresentazione del reale, vent’anni dopo il suo linguaggio doveva sembrare assolutamente demodé. Ma anche un autore entrato nel circolo della cultura europea negli anni settanta e ottanta come Bachtin vedeva il proprio dialogismo amputato di qualsiasi riferimento alla comunicazione sociale e interpretato esclusivamente come dialogo fra i testi.

Il problema della verità dunque non si poneva. O, tutt’al più, si poneva come verità testuale, come, avrebbe detto Barthes, effetto di verità, alla stessa stregua per cui, per esempio, egli parla di effet de réel o effetto di realtà.

L’assolutezza dell’aspetto linguistico-letterario così ipostatizzato produceva poi due figure di critico e di intellettuale, l’una prevalente negli anni dello strutturalismo, l’altra in quelli del poststrutturalismo: lo scienziato o il tecnico della letteratura e il vate oracolare e/o narcisso. Il primo assumeva il camice bianco, resecava via accuramente il testo dal contesto, descrivendolo con infinita minuzia tecnica; il secondo, avvolto nel manto di un officio sacrale, vi leggeva la fiamma di un Logos nascosto o il teschio del nulla o anche, altre volte, la proiezione della propria autobiografia trascendentale. Entrambe queste figure hanno rinunciato a un confronto con la realtà sociale, con i valori della comunità, con il pubblico vasto dei lettori e insomma alla funzione di mediazione civile che il critico aveva svolto per secoli.

In Italia processi analoghi a quelli della teoria si sviluppavano anche nella narrativa. La parola d’ordine dell’autoriflessività e della metaletteratura, già presente nel romanzo sperimentale e d’avanguardia degli anni sessanta e settanta, si spostava alla fine di quest’ultimo decennio su un piano decisamente intertestuale. Nasceva, da noi, il postmoderno. I libri che segnano questo passaggio – Se una notte d’inverno un viaggiatore e Il nome della rosa – puntano all’estromissione della realtà: «nomina nuda tenemus», conclude Eco, facendosi portavoce di una tendenza che stava ormai dive tando dominante. L’aspetto prevalente resta quello metaletterario, ma muta ora il suo orientamento. Si passa da un metaromanzo comcepito come opera aperta o come antiromanzo, come work in progress o in fieri, a un metaromanzo concepito come rifacimento, riscrittura, parodia, citazionismo, non senza riprese delle tradizionali forme chiuse (tipico il caso del romanzo neostorico che a partire da Il nome della rosa ha avuto ininterrotta fortuna sino a oggi).

2.

Nel corso degli anni novanta e all’inizio del nuovo secolo va registrato tuttavia qualche cambiamento. Per esempio, la diffusione negli Stati Uniti di tendenze ispirate al neostoricismo, ai cultural studies e agli studi di genere e postcoloniali, pur senza attribuire alcuna specificità al discorso letterario e talora senza neppure porre chiaramente in discussione una concezione intertestuale, hanno cominciato tuttavia a mettere l’accento sul carattere documentario e conflittuale dei testi considerati in rapporto a concrete situazioni di potere.

Sul piano della teoria letteraria una data significativa è il 1998, anno di uscita del libro di Compagnon Le démon de la thoérie. Più che per il suo intrinseco valore teorico, il libro di Compagnon è importante perché rivela un cambiamento sostanziale di indirizzo. Di fatto è l’autocritica di un allievo di Roland Barthes che pone in questione la lezione del maestro e, con essa, i presupposti teorici dello strutturalismo e del poststrutturalismo, a partire dalla nozione-cardine della autoreferenzialità della letteratura e dalla riproposta, per quanto ancora timida e impacciata, del suo valore conoscitivo. Si andava aprendo un nuovo filone di ricerca che anche in Italia ha avuto qualche effetto se, per esempio, qualche mese fa, è potuto uscire un libro come Realismo e letteratura di Federico Bertoni, che torna a fare proprio il concetto di mimesis, intesa come «attività produttiva e cognitiva»[1]. Beninteso, nessuno ha l’intenzione di riesumare categorie come quella lukacsiana di realismo, fondate sull’idea dell’arte come «riflesso»; ed è perlopiù scontato per tutti che, come diceva Nabokov, «realtà è una delle poche parole che non hanno alcun senso senza le virgolette»[2]; ma è anche vero che, una volta ammessa la funzione conoscitiva dell’arte, bisogna poi aggiungere che il mondo preesiste all’uomo e non è fatto unicamente di parole, anche se è solo attraverso di esse che possiamo darne conto.

Il recupero del termine di mimesis s’inserisce all’interno di una costellazione teorica che ha naturalmente al suo centro, come ineliminabile punto di riferimento, il capolavoro di Auerbach che da esso trae il proprio titolo. La straordinaria fortuna, in Europa, del cinquantenario della morte del suo autore, avvenuta nel 1957, costituisce d’altronde un fenomeno culturale sotto i nostri occhi su cui vale la pena riflettere. L’attualità di Auerbach va cercata nella sua capacità di fornire una riproposta della nozione di mimesis estranea tanta alla concezione lukacsiana di realismo quanto allo schematismo di una concezione teleologica della storia di stampo hegeliano o posthegeliano; anzi egli resta sempre fedele a quel relativismo storico di cui parla nel saggio Sullo scopo e il metodo. Auerbach infatti salva tanto la filologia quanto l’ermeneutica, coniugando il senso della storia e la capacità di interpretarla al di fuori di parametri totalizzanti, il riconoscimento del valore conoscitivo della letteratura e dell’esistenza di un mondo e di una società con cui l’artista deve fare i conti e una vivissima percezione del carattere contraddittorio, mai rettilineo e scontato, del processo storico.



3.

Convinto dell’attualità di Auerbach è anche Edward Said, che la individua in una prospettiva nuova: quella dello scrittore in esilio, che scrive della letteratura occidentale stando a Istambul e cioè ai margini dell’Occidente. D’altronde, per l’autore di Orientalism è ovviamente decisiva la questione del punto di vista critico. E la costrizione di leggere la letteratura occidentale da lontano e da fuori, senza poter ricorrere neppure, come Auerbach stesso confessa, a una biblioteca specializzata in studi europeistici, e quindi senza il filtro di una bibliografia già compromessa, si trasformerebbe, secondo Said, in una opportunità che consente un’ottica nuova: non solo cioè di raccontare la realtà dell’Occidente espressa nella letteratura, ma anche di dirne la verità. «Dire la verità» è la formula che sintetizza per Said il nuovo mandato degli intellettuali che, spossessati dalla funzione centrale di mediatori delle ideologie che avevano in passato, e relegati in una condizione di marginalità, si configurebbero ormai come dei dilettanti, degli outsider, degli esiliati, come uomini di confine condannati alla precarietà, ma proprio per questo disposti piuttosto all’opposizione che al compromesso. Anzi il nuovo intellettuale tanto più può dire la verità quanto più può «trovare la propria ragione d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate»[3].

Nel nome di Auerbach insomma è possibile non solo il recupero del senso oggettivo della realtà, ma anche quello dell’esigenza soggettiva di dire la verità. E se il primo termine – la realtà, il realismo – presuppone un confronto con la materialità del mondo e dei processi storici e sociali, il secondo – la verità – implica la dimensione dell’impegno personale di tipo etico e politico.



4.

Nel campo della narrativa, in Italia, da un lato continua l’onda lunga del postmoderno, con i suoi romanzi intertestuali sempre più chiusi e tradizionali nell’impianto, ma dall’altro, nei più giovani, comincia anche a farsi largo una nuova tendenza più incline a un rapporto diretto con la realtà, alla denuncia, alla testimonianza della verità. Se prendiamo quest’ultima annata (2007) troviamo esempi sia dell’uno che dell’altro aspetto.

Una storia romantica di Scurati è un ennesimo romanzo storico costruito su una rete di citazioni, rifacimenti, plagi, alla fine persino esibiti in un compiaciuto elenco di riferimenti bibliografici collocati alla fine del volume. Come spesso nel postmodernismo italiano, da Eco in poi, l’opera vorrebbe rivolgersi indiscriminatamente a un pubblico vasto, da sedurre e catturare, in questo caso, anche ricorrendo agli effetti e magari agli effettacci più ostentati. Scurati non esita a costeggiare la cosiddetta paraletteratura e a fare il verso al romanzo d’appendice ottocentesco. E tuttavia forza poi questi modelli ora in senso “popolare”, sino alla volgarità e al cattivo gusto, ora invece in direzione opposta verso una direzione spiccatamente elevata e marcatamente letteraria. Così toni e accenti violentemente orripilanti e grandguignoleschi si alternano a sublimità e a richiami sofisticati a Valéry, Rimbaud o Montale, la paccottiglia paraletteraria si mescola all’ambizione “alta” di una letteratura al quadrato fondata su una griglia vistosamente intertestuale. Di conseguenza i personaggi, per quanto semplificati, focosi e sanguigni, risultano enfatici e declamatorii e finiscono con l’essere sempre e soltanto personaggi di carta, fra un ’48 raccontato come un western all’italiana rinfrescato da citazioni dall’Ortis foscoliano e figure e situazioni che hanno la rigidità dei cartoons giapponesi.

Ma il 2007 è anche l’anno di Sirene di Laura Pugno e soprattutto di Gomorra di Saviano. Sono due opere diversissime, eppure, ciascuna a modo suo, cerca di dire la verità sull’oggi. Sirene fa ricorso alla fantasia sino a sfiorare la fantascienza, prolungando nel futuro i tratti più sconvolgenti dell’oggi immaginando una società posthuman corrotta e spietata, insidiata da catastrofi immani e dedita all’allevamento e allo sfruttamento alimentare e sessuale delle sirene. Più diretta la presa sulla realtà da parte di Saviano, che apertamente teorizza, nelle pagine centrali del suo libro, la necessità di dire la verità. Se Sirene è una favola nera, Gomorra è un libro strano, un ibrido fra documentario e narrativa, fra autobiografia e saggistica, fra letteratura e sociologia. Quasi che la flessibilità e la precarietà così diffuse fra i giovani (l’autore stesso è stato ricercatore a tempo determinato presso un ente pubblico) abbiano preso forma, siano diventati un’opera, un nuovo genere letterario. D’altra parte Saviano si inserisce in una tendenza, che potremmo chiamare in prima approssimazione al “ritorno alla realtà”, di cui fa parte il recupero del genere del documentario già in atto da qualche anno soprattutto da parte dei registi cinematografici più giovani, ma presente anche in letteratura. Per restare alla narrativa, basterà ricordare Mi chiamo Roberta di Nove e Sandokan di Balestrini, che ha per argomento la stessa materia narrativa di Gomorra, la camorra. Ma a differenza di Sandokan, che ha finalità prettamente artistiche e infatti è composto da lasse di eguale espansione e prive di punteggiatura, Gomorra si propone uno scopo prevalentemente documentario. Vi si leggono, uno per uno, tutti i nomi dei nemici – i nemici dello stato e della convivenza civile, e cioè delle varie famiglie e clan di camorristi. Erano anni che in un libro non si facevano i nomi. E poi vi sono fatti e cifre, storie di paesi e di persone in carne e ossa, statistiche e dati.

Ma in Gomorra affiora anche qualcosa d’altro, non meno interessante; vi emerge infatti una nuova figura di intellettuale, non lontana da quella che Said aveva preannunciato. Qui c’è un giovane che si aggira in scooter sui luoghi del crimine, fra gigantesche discariche di rifiuti, sangue di morti ammazzati, fiumi di cemento, villaggi abusivi, quartieri e periferie degradati in cui si accumulano masse enormi di denaro, armi, merci. Per questo piccolo, emarginato e rabbioso eroe, dire la verità significa esserci, testimoniare di persona, fare uso di una «parola-sentinella» e di un’unica «armatura»: «pronunciarsi». E per «pronunciarsi» bisogna dire la verità accumulando prove inconfutabili e parziali, perché vissute con il corpo, in presa diretta, sperimentate dal vivo, filtrate e temprate dalle emozioni. Tra oggettività della denuncia e soggettività emotiva si instaura così un cortocircuito, in cui risiede indubbiamente anche il valore letterario dell’opera e che comunque rivela un’eredità assunta consapevolmente: non solo quella apertamente dichiarata di Sciascia e di Pasolini, ma più in generale quella dell’intellettuale scomodo e marginale che vive al confine, sulla frontiera, e pratica una sorta di contrabbando fra società e comunità diverse: qui, fra quella dei camorristi e quella del laureato di filosofia che fa il ricercatore sul campo, quella delle periferie degradate e l’altra dei centri di civiltà, quella del denaro, delle armi e della arroganza sanguinaria e quella della cultura e della dignità morale. Questa figura storica – da Baudelaire a Pasolini – ha assunto insomma una nuova dimensione: non aspira più a occupare il centro della scena, non accampa utopie, non partecipa a una battaglia di manifesti, di idee e di poetiche, ma accetta come naturale e scontata la propria marginalità. Se i giovani del Gruppo 63, quarant’anni fa, erano l’avanguardia in vagone-letto, il ricercatore Saviano che si muove in Vespa nei territori devastati del napoletano e del casertano è la figura più eloquente di una nuova condizione storica. Non parla più in nome di una prospettiva politica, di una filosofia o di una ideologia, ma solo in nome di un corpo offeso, della realtà di una esperienza che, prima ancora di essere intellettuale, è fisica o biologica. L’evidente lezione di Pasolini è portata a un punto estremo. Gomorra documenta una fase nuova, in cui il senso della storia è senza storicismo, il senso dell’etica è senza morale precostituita e il senso dell’impegno civile è senza più nazione o popolo.



5.

Il libro di Bertoni citato poco fa si chiude mostrando come Underworld di Delillo – un autore, dunque, che comunemente viene definito postmoderno – sia un esempio di mimesis - e anzi di una «realismo plurale» perché capace di investire tanto il livello tecnico-formale quanto quello tematico-referenziale, tanto l’aspetto semiotico quanto quello cognitivo - e anche testimonianza di impegno morale volto a influenzare le coscienze e a esercitare una critica politica e culturale. E che, dopo il minimalismo, sia in atto negli Stati Uniti un “ritorno alla realtà” basterebbero i nomi di Roth, Cunnigham e Franzen a documentarlo. Nell’Italia provinciale in cui viviamo il processo è più arretrato, ma forse i suoi primi sintomi si avvertono già.

(1) F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, p. 363
(2) Citato da Bertoni, ivi, p. 17.
(3) E. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 9-27-

Posted by luperini on 2008-06-03 10:19



Pubblico, di seguito, un'interessante riflessione di Giuseppe Panella. Buona lettura!


1. Il patto autobiografico 
Sembra evidente, anche ad un esame non eccessivamente approfondito, come l’evidenza e la suggestione autobiografica abbia affascinato un  certo numero di critici letterari italiani desiderosi di trasformare il loro approccio (finora avvenuto dall’esterno) agli autori che hanno studiato in una proposta di lettura che passa attraverso la loro dimensione più intima e più personale. 
Sembrerebbe dimostrarlo una serie di libri (nella maggior parte piuttosto smilzi e umili anche nella veste grafica) i cui autori si fanno forza delle loro esperienze di lettura in età giovanile per avanzare ipotesi più o meno catastrofistiche sul destino della poesia e della critica letteraria. 
La prospettiva personale di analisi dei testi risulta sicuramente interessante dati i nomi che la propongono con tanta autorevolezza anche se questo  modello di verifica della qualità letteraria sembrava abbandonato da tempo in vista di metodologie più obiettive.  
Il fascino di saggi come Ringraziamento per una ballata di Paul Fort  di Renato Serra pubblicato su “La Voce” nel 1914 è ancora forte ma il tempo di quel modo di fare critica della poesia appare certamente lontano. Non si tratta certo di contrapporre un modello tutto “soggettivo” di lettura delle opere letterarie ad un altro che pretenda di essere rigorosamente “oggettivo” e privo delle spigolosità e idiosincrasie personali che contraddistinguono di solito anche il più acribico dei “lettori di professione” (come, infatti, si definì brillantemente proprio Serra).  
Ma il caso occorso è singolare nei modi e nei toni e, a mio avviso, merita una menzione di merito. 
In quello che sembra essere il suo “addio alla critica letteraria”, Mario Lavagetto rievoca il suo primo approccio alla lettura della poesia: «Molti anni fa, studente dell’ultimo anno di Liceo, andai con alcuni compagni di classe a sentire una lezione di Ungaretti su Leopardi all’Università di Roma. Eravamo pieni di febbrili aspettative e uscimmo sconcertati e delusi: il vecchio poeta aveva debuttato leggendo (meravigliosamente)  Alla luna. Arrivato alla fine della sua lettura era rimasto in silenzio, con istrionica impassibilità, per qualche minuto, poi aveva borbottato: “E’ meraviglioso… non c’è niente, proprio niente da dire” e aveva letto e riletto ripetutamente il testo fino a quando il tempo della lezione fu completamente esaurito» (Mario Lavagetto, Eutanasia della critica, Torino, Einaudi, 2005, p. 9). 
Il tempo della lezione corrisponde al tempo della lettura del testo poetico e la comprensione di esso viene totalmente affidata ad essa. E’ ovvia la delusione provata dall’aspirante critico in erba che avrebbe sperato dall’illustre maestro di poesia una parola “che mondi” potesse, montalianamente, “aprirgli” nell’interpretazione e  nella ricerca della/e verità contenuta in quella poesia stessa. 
Probabilmente non sapeva (ancora) che si trattava dello stesso metodo utilizzato da Ungaretti per tradurre Mallarmè – riprodurre alcune delle sue liriche tel quel senza provarsi a tradurlo adducendone come giustificazione l’impossibilità di farlo in maniera tale da non deturparne la preziosa cadenza e bellezza dell’originale. Ma la critica non può risolversi nella lettura senza introdurre in essa almeno una traccia di interpretazione del testo e senza provare a smontarlo per capire (e far capire) ai suoi lettori come funziona (o almeno come potrebbe funzionare). 
E’ questa la funzione della critica, ovviamente, ma non solo. La letteratura tutta e, quindi anche la poesia, ha certamente bisogno di essere capace di parlare da sé ma non sempre questo è possibile. 
Come la cattiva diagnosi di un medico compromette la salute del suo malato, la cattiva interpretazione (o la non interpretazione) di un testo ne compromette la possibile circolazione ed esistenza a venire. Come annota Heidegger citato e poi chiosato da Lavagetto: «In ogni caso la scelta di una strategia rappresenta un impegno cruciale e di grande conseguenza etico-politica. “Quando un medico cura malamente i propri malati – ha detto una volta Heidegger – c’è pericolo per la loro vita. Quando un insegnante interpreta in modo inaccettabile una poesia “non succede nulla”. Ma forse sarebbe meglio parlare con maggiore cautela: quando si interpreta una poesia in modo insoddisfacente, tutto procede come se non accadesse nulla. Un bel giorno, tuttavia, dopo cinquanta o cento anni, succede qualcosa”. Non diversamente – io credo – se si leggessero i testi, soppresse tutte le mediazioni, non succederebbe in apparenza nulla, ma dopo cinquanta o cento anni ci si accorgerebbe che qualcosa è accaduto e che quei testi hanno smesso di parlare perché nessuno è tornato periodicamente a interrogarli. Si verificherebbe quanto Valéry aveva 
lucidamente paventato fin dal 1923 a proposito dei  classici: “Ancora un po’ di tempo – diceva – e non li capiremo più» (Mario Lavagetto, Eutanasia della critica cit., pp. 86-87). 
La solitudine del critico nasce da questa minaccia. Si tratta di una solitudine che la critica cerca di evitare esorcizzandolo e moltiplicando le ragioni della propria esistenza. Per farlo si riserva di attingere dal passato personale dei critici il perché delle loro scelte o addirittura la verità su di esse e sul loro perseguimento continuato nel tempo e negli anni trascorsi. 
Lo stesso rovello autobiografico sembra caratterizzare anche Giulio Ferroni che in un suo testo più recente di quello di Lavagetto (La passion predominante. Perché la letteratura, Napoli, Liguori, 2009) ricapitola la sua storia di critico letterario a partire dall’infanzia e dai nomi dei poeti che hanno caratterizzato il suo interesse per la poesia e la letteratura. 
«Dunque la letteratura: il primo nome letterario che ricordo di aver sentito era appunto romano e romanesco, quello del poeta Trilussa. Sono in un cinema di via Salaria, non so perché né con chi, forse con qualche amica di mia madre, e nell’intervallo dello spettacolo sento dire da qualcuno lì vicino, o forse da quella stessa amica, che è morto Trilussa, grande poeta romano (che poi in realtà ho sempre frequentato molto poco, a differenza del ben più grande Belli). Siamo dunque al 1950 (per la precisione la morte di Carlo Alberto Salustri risale al 21 dicembre 1950); […] un altro ricordo della morte di uno scrittore balena più tardi, quando ormai sono più grande, anche se nella mia mente sembra stranamente arretrare indietro: si tratta della morte di Benedetto Croce, di cui sento dire una mattina mentre sto andando a scuola, mente nel contempo scorgo la notizia in grandi caratteri sulle prime pagine dei quotidiani in mostra in un’edicola»  
(Giulio Ferroni, La passion predominante cit. , p. 3).  
All’epoca della morte di Croce, il critico romano aveva 10 anni – troppo giovane per conoscere tutte le implicazioni teoriche relative al filosofo idealista ma già curioso di eventi e di vicende legate al mondo della cultura letteraria. 
Ferroni sembra far risalire la sua vocazione di critico non solo e non tanto agli studi scolastici primari e alle letture a latere fatte più “da grande” (come si intitola un capitolo del libro, il secondo) quanto all’incontro con studiosi che lo hanno indirizzato verso la lettura critica dei testi poetici e la passione per la loro possibile comprensione più profonda: «Leopardi l’ho invece amato come ogni adolescente dei miei tempi, scoprendo nella sua poesia una voce solidale che dava senso al malessere adolescenziale, alle domande più determinate e insieme più semplici sui limiti della vita, sull’amore, sul dolore, la morte, il ricordo, il rimpianto, su tutto ciò che si ama e si perde, si dissolve nel nulla. Tante e a più riprese furono le letture dei Canti maggiori, anche se una lettura integrale venne solo più tardi, con l’arrivo di Walter Binni all’università di Roma, nel 1964, e con la scoperta di tutto il valore della filosofia leopardiana e del suo nesso con la poesia. Ma già prima di questo essenziale riconoscimento del Leopardi illuminista e materialista (che trovò nuove ragioni negli studi di Sebastiano Timpanaro) avevo sentito tutta la suggestione di quella lirica così perfettamente “classica” e tutta tesa a dar voce al presente, a risolvere il sentire personale in una percezione dello spazio e del tempo, in una insuperabile protesta contro il dissolversi delle speranze, contro l’evanescenza della bellezza, contro l’impossibilità dell’amore»  
(Giulio Ferroni, La passion predominante cit., p. 43). 
La letteratura, fin dagli esordi dell’apprendistato critico, si rivela come un futuro “mestiere” che contiene insieme una passione ardente e onnipervasiva – un momento formativo cruciale per la vita futura che si nutre dell’amore per i libri come strumento di comprensione di un reale il cui significato rischia di sfuggire o di divenire alla lunga lontano o come affievolito. La pratica della critica, in questo modo, si rivela desiderio e gusto di leggere e di capire la natura di ciò che è stato letto e non soltanto l’esibizione narcisistica di metodi e di teorie. 
In un simile contesto di amore viscerale per la grande letteratura e per le sue forme espressive, si spiega come venga ripresa in chiave socio-culturale la nozione di “letteratura in pericolo” che Ferroni riprende da un fortunato libro di Tzvetan Todorov (La letteratura in pericolo, trad. it. di E. Lana, Milano, Garzanti, 2008) e che utilizza per denunciare il suo timore di una possibile fuoriuscita dalla ”Galassia Gutenberg” come perdita di rapporto diretto, fisico con la dimensione reale dell’approccio ai testi letterari. «Così sotto il segno dell’informatica e di Internet si ricicla tutta la paccottiglia degli estremismi e anarchismi “desideranti”, in lotta contro ogni residuo dell’umanesimo illuministico. L’uscita dalla “galassia Gutenberg” liberando la mente, l’occhio e la mano dalla fissità della scrittura e dai modelli ideologici “forti” che essa sosterrebbe, sarebbe l’anticamera di una rivoluzione che si dà nell’atto stesso di dirsi, configurazione di una comunità virtuale che sovverte la tirannia della lettera […] e insieme frantuma l’insopportabile peso di metafisica, razionalismo,  umanesimo, ecc. Il mito e la nostalgia dell’oralità, della manifestazione diretta e non mediata della parola sembrano trovare nuovo appiglio nelle possibilità di trasmissione, registrazione, riproduzione, amplificazione della voce, sostenute per giunta dalle contaminazioni con le forme, i codici, i dati sensoriali più diversi messi in opera dalla multimedialità. C’è perfino chi si incanta per l’invasione degli “analfabeti” o dei “barbari” che il dominio della comunicazione mediatica comporta: sono molti a pensare, e ne sono ben lieti, che il tempo della letteratura sia finito» (Giulio Ferroni, La passion predominante cit., pp. 75-76). 
I termini utilizzati qui da Ferroni potrebbero sembrare oggi eccessivamente tradizionalistici (o addirittura misoneistici e arretrati in taluni casi) ma è anche vero che l‘imbarazzo tutto “umanistico” del lettore professionale di fronte all’approssimazione e al narcisismo inaccettabile che invade i sentieri virtuali del web permane. Come leggere la poesia o i romanzi del passato nell’epoca di Internet? Come riuscire a ritrovare (e a far ritrovare ai più giovani) la passione per la poesia e per la lettura dei classici? 
2. Una solitudine troppo rumorosa? 
Quest’ultima è una delle domande che affannano la riflessione (peraltro pacata e spesso simpaticamente auto-ironica di Franco Brevini nel suo notevole Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari (Torino, Bollati Boringhieri, 2008). Anche la strada scelta da Brevini per discorrere e  argomentare sul destino della critica letteraria del futuro è quella della narrazione auto-biografica del presente e del rapporto tra chi cerca di comprenderlo e gli ostacoli che si frappongono davanti a questo sforzo che spesso risulta nullificato o almeno reso assai difficile dalla natura nuova emergente di esso. 
Anche qui il rapporto con la lingua e la sua evoluzione è determinante. Il critico narra, ad es., di un suo corso tenuto alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bergamo: «A Bergamo ho tenuto un corso su Carlo Porta. Nonostante faticassero a capire il dialetto milanese di due secoli prima, gli studenti erano affascinati dal suo impaziente desiderio di far piazza pulita di tutti i cascami della tradizione letteraria. In una città come Milano, allora crocevia del rinnovamento culturale, l’autore della Ninetta del Verzee poteva farsi allegra beffa dei classicisti con i loro polverosi corredi mitologici, liquidandoli con sprezzo come papa fada (“pappa fatta”) o robba passada (“roba passata”). Nelle Sestin per el matrimoni del sur cont don Gabriell Verr aveva dichiarato senza mezzi termini: Romantegh come sont tutt quell che foo / sont condannaa a toeull foeura del mè coo (“Romantico come sono, tutto quello che faccio sono condannato a tirarlo fuori dalla mia testa)» 
(Franco Brevini, Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari cit., p. 20). 
Brevini è, infatti, ben noto quale studioso di poesia dialettale e ad essa ha legato il proprio programma di ricerca letteraria. Facendo leva sul suo amore per questo segmento fondamentale della poesia italiana di sempre, cerca di rivitalizzare l’interesse per quell’ormai (apparentemente) morente mondo delle humanae litterae che è stato per lunghissimi anni il fondamento dell’insegnamento scolastico in Italia (e non solo). Ma i passaggi di civiltà – noterà più avanti – comportano sempre momenti di rovesciamento generale delle prospettive di attesa. Così è stato in passato, all’alba della modernità, così è certamente oggi. 
Il presente è fatto di attesa e di conferma dell’ “innovazione”(p. 20). Tale aspetto non si può eludere o dimenticare in nome del rispetto delle tradizioni invalse ma ormai consunte. Il “riconoscimento” nei valori che accendevano le menti anche in un passato non tanto remoto non avviene più. Annota Brevini: «E’ come se anche gli ultimi baluardi della cultura cui siamo abituati ad attribuire questo nome siano saltati, sparendo dall’orizzonte degli adolescenti e dei giovani. Studiano con diligenza, le nuove generazioni, ma non scatta l’esperienza del riconoscimento. Se un tempo a dare forma alle inquietudini degli adolescenti che eravamo contribuivano anche i versi di Cesare Pavese o di Jacques Prévert, oggi non sembrano esserci che Vasco Rossi o le filastrocche cadenzate del rap e dell’hip hop. I poeti giacciono dimenticati e malinconici come paccottiglia crepuscolare nell’impolverato Parnaso dei programmi scolastici. Davvero, mi chiedo allora turbato, il posto dei grandi libri e dei grandi autori è stato occupato dalla vulgata dei media, l’unica, reale monocultura di riferimento dei miei studenti, il cibo che solum è loro?»  
(Franco Brevini, Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari cit., p. 51). 
La richiesta di un nuovo linguaggio, di un codice rinnovato di comunicazione linguistica, tuttavia, non è attribuibile soltanto alla stretta  attualità del presente. Con intelligenza e precisione, la vicenda della poesia italiana del secondo Novecento viene seguita lungo le linee della storia della sua liberazione dalle pastoie di una lingua poetica non più adeguata al tempo nuovo che arrivava: 
«Persino chi abbia seguito le vicende di un genere sdegnosamente rinchiuso nei suoi rituali come la poesia non può fare a meno di rilevare la svolta che interviene negli anni sessanta, in coincidenza con la tumultuosa seconda modernizzazione della società italiana. Si tratta di un evento quanto mai significativo, che testimonia l’impossibilità di proseguire sui vecchi binari e che fra le sue molteplici ricadute può vantare anche una risoluta modificazione della lingua impiegata dai poeti. Nel giro di pochi decenni ciò che restava dell’ordinato edificio dell’italiano letterario, già profondamente scosso all’inizio del Novecento dalle esperienze di Pascoli, di D’Annunzio e dei crepuscolari, venne definitivamente demolito. Nella lingua della poesia dilagarono lo standard e il parlato, che in precedenza erano serviti solo per saltuari innesti ironici o parodici»  
(Franco Brevini, Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari cit., pp 117-118). 
Gli esempi che Brevini pur brevemente esibisce sono, infatti, assai significativi di una stagione che coinvolse tutti, dai Novissimi agli ermetici sopravvissuti e coloro i quali senza voler essere né dalla parte degli uni né degli altri utilizzarono la poesia per mostrare spontaneamente la fine di un’epoca e l’inizio necessitato di un’altra.
«E così  Nel magma (1963) di Luzi vede ricorrere formule discorsive ed espressioni tratte dalle cronache quotidiane,  Gli strumenti umani (1965) di Sereni registra moltissimi tratti di parlato, Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1965) di Caproni introduce modi tipici della conversazione di ogni giorno, Satura (1971) di Montale compie un’ immersione tanto radicale e sarcastica nella lingua della comunicazione da apparire quasi un’abdicazione dalla poesia stessa, firmata da un Montale in qualche modo postumo a se stesso. Per non parlare della neoavangurdia…» (Franco Brevini, Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari cit., p. 118). 
Uno dei suoi modelli di riferimento, infine, la straordinaria figura di poeta-intellettuale quale fu Franco Fortini gli suggerisce delle possibili conclusioni. Il tempo della poesia “classicistica” e “aristocratica” (nonostante l’impegno politico esibito nell’immediato succedersi delle vicende dell’attualità) di poeti come quest’ultimo può essere considerato ormai passato ma non per questo si può dire che sia finito il tempo della poesia. Certo la solitudine del poeta si accentua nonostante il clangore e il brusio della comunicazione nella rete. Brevini, alla fine del suo libro, azzarda una proposta che ha il sapore della profezia:  «Nei giorni scorsi mi è capitato di riprendere in mano il Convivio di Dante.[…] Ho riletto le pagine dove l’autore della  Commedia intona un’appassionata difesa del volgare, il cui  uso poteva rappresentare per gli intellettuali conservatori una gravissima macchia, ma che lui saluta invece come un sole nuovo chiamato a illuminare “coloro che sono in tenebre e in oscuritade”. Il tema è dunque un codice basso, non aulico e perciò dispregiato dai sapienti, quale strumento per far circolare la cultura fra un numero più ampio di persone. Non so se la svolta che stiamo vivendo sia confrontabile con quella di Dante…» (Franco Brevini, Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari cit. , p. 190). 
In un bel libro del 2002 di Guido Mazzoni (Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea 
pubblicato a Milano da Marcos y Marcos), proprio a proposito di Fortini, Sereni e Montale) aveva proposto questa categoria della solitudine, a cavallo tra sociologia e critica letteraria, come possibile modello interpretativo di una stagione ormai trascorsa ma non certo dimenticata o cancellata. «Se la poesia contemporanea attraversa una crisi irreversibile, è anche perché non riesce più a comunicare quell’idea dell’uomo e del mondo che,  secondo la propria logica interna, sarebbe chiamata a comunicare. Così facendo, registra una condizione reale e dice alcune verità sul nostro tempo: che il poeta non ha più un mandato; che il nostro rapporto con la tradizione è necessariamente problematico; che in condizioni normali il nostro io non è più integro né plastico; che non possiamo più attribuire alle nostre esperienze soggettive un oggettivo valore universale, a meno di non regredire a stadi di vita psichica anteriori a quello occupato dalla coscienza desta, e dunque immediati e presociali» (Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea cit., pp. 17-18). 

Se i contemporanei sapranno accettare questa loro condizione o ribaltarla, ai critici non è dato sapere. L’importante è però che, dopo aver fatto il loro “esame di coscienza” (quale fece Renato Serra prima di morire sul Podgora per una pallottola austriaca), non mantengano anch’essi una posizione di sdegnoso isolamento rifugiandosi nei ricordi del passato per rimpiangerlo.  
Compito della critica oggi è vivificare quel passato, non considerarlo (ancora) come irrimediabilmente perduto.




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