venerdì 23 dicembre 2016

Manuale per spin-doctor del patrimonio artistico. Arte e sfera pubblica

"Il ruolo critico delle discipline umanistiche", così recita il sottotitolo, si presenta nelle nostre librerie con un dettaglio in copertina di Domani chi sa di Piero Manzoni, opera del 1956 della Fondazione Manzoni di Milano.
Scelta interessante; fa pensare. Va oltre il gusto personale dell’autore e dei suoi studi; direi sia da intendere come una domanda aperta, un invito per l’arte contemporanea (e la contemporaneità) da porsi nelle sue varie sfaccettature. Sì, perché le questioni sono sempre aperte, lo sappiamo! E le domande sono le ultime a sparire.
Il volume, pubblicato da Donzelli, si presenta con quattrocentro-otto pagine; dopo l’introduzione, che non è una semplice premessa di metodo ma un chiaro disegno critico di questo prodotto, egli articola la sua opera sostanzialmente il tre parti: Immagini e parole; sciami, migrazioni, morfologie e, in conclusione, una dichiarazione d’intenti (la definirei) con dieci libri “colti” contro la pedanteria. Due precisi blocchi distinti, pronti per la lettura.  
Con un impianto del genere è naturale che gli stimoli proposti possano esser molteplici e multiformi,  colti in un senso verticale della lettura, una visione diacronica alla Chomsky. Sì, perché, nell’approccio applicato, chiaramente interdisciplinare, appaiono quegli stessi dati che interagiscono con la visione di un universo, un macrocosmo di effetti, rigenerante, volto al rinnovamento.

L’opera ha un assetto che rammenta – nella prima parte - la Storie dell’arte di Gianni Romano (lo studioso di Mantegna e del Rinascimento) pubblicate dallo stesso editore più di un decennio fa; ma la scelta degli interlocutori stavolta cade direttamente su Panofsky, Gombrich, Warburg, Longhi e Baxandall. Una scelta ardita, potrebbe sembrare. In verità si danno delle risposte mirate, partento già dal numero delle pagine: per Panosky e Longhi sono state dedicate trenta pagine (il primo, per la precisione 34), contro le ventisei a Baxandall, venti a Warburg (in compagnia di Nietzsche e Splenger) e diciotto a Gombrich; chi legge Michele Dantini sa bene che questi dati sono da tenere nella giusta considerazione.
L’esigenza teorica dello studioso è quella di presentare un’ossatura chiara, precisa, attenta all’approccio metodologico della lettura dell’opera seguendo il principio della contaminazione dell’arte contemporanea e della visione comparata ai vari fenomeni  della produzione culturale europea e internazionale. E sì, perché di Europa e di America si parla, chiaramente nella seconda parte, in medias res questa volta, tra Duchamp, Le Corbusier, Manzoni e L’arte post bellica (uno dei suoi cavalli di battaglia).
L’auotore parte dalla giustapposizione tra Panofsky ed Heidegger, sviluppando la descrizione di quel “Pantheon personale” di Panofsky tra le due guerre; inserisce Durer in una “triade di eroi culturali”, con Kant e Goethe; un genio nazionale tedesco che entra in contatto con le immagini per antonomasia della storia del pensiero, con un “occhio storico disinteressato” (p. 28).
È infatti questa la visione di Michele Dantini,  da sempre alla ricerca di una nuova missione per la storia dell’arte (invocando quella terza, continuamente richiesta, ma assente - fuori dai criteri di valutazione della scena universitaria, rannicchiata nella sua “cultura antiquaria”).  In questa prospettiva l’attività dello storico e del curatore deve rinnovarsi, all’interno di un contesto che rischia di non raggiungere l’upgrade adeguato alle proprie potenzialità e alle nuove sfide; un contesto che cerca nuovi punti di riferimento, degli eredi consapevoli e stabilmente incardinati in strutture meno precarie e secondo procedure meglio definite.
Insomma una prospettiva lata, pervasa dal coinvolgimento di buone pratiche per un modello attuale ancora da costruire saldamente; alla ricerca di nuove sfide, pronte per essere attuali!
Filosofo di formazione,  storico dell’arte nel perfezionamento in Normale con Paolo Fossati, Paola Barocchi ed Enrico Castenuovo, l’approccio di Dantini come studioso è sicuramente differente e si vuol imporre come “opposizione politica” propositiva per questa panoramica storico artistica.
Quindi, se la lettura dell’opera è l’obiettivo primario alla base della conoscenza e della sua evoluzione, il piano si amplia alla descrizione e all’interpretazione del suo senso.
“Arte post bellica” è la prospettiva di una nuova formula di studio che apre fronti differenti. È una riflessione molto raffinata sul metodo, che coincide con l’uscita del numero monografico sullo stesso argomento su “Predella. Journal of visual art”. Il momento è infatti decisivo per la ricostrizione di un contesto che era poco definito nella sua complessità; ora si assemblano in una questa miscellanea di aspetti che si proiettano su casi specifici della ricostruzione della nuova identità di quattro nuove generazioni, come le definisce, “da Fontana a Manzoni a Paolini e De Dominicis, da Cattelan a Cuoghi”. Un momento storico di ampio respiro, che si dispiega in un panorama ricco di proposte visive, le cui formule andrebbero ancora inquadrate secondo l’ausilio di una “connoissourship specifica, attendibile, spigliata..... e perspicace”(cit. p. 225). Quindi la domanda chiave da porsi “quali sono i rapporti, in ambito contemporaneistico, tra filologia e mito, ricerca storica ed egodocumento?”. Ecco che finalmente si pone a livello teorico un nuovo punto di partenza sui metodi. Cercare una risposta può aiutarci a ricollocare il “punto d’osservazione” dello studioso e – conseguentemente – del critico. Da una parte l’interrogativo si pone sull’assetto culturale della visione del critico-curatore (e il suo rapporto con il gallerista, aggiungerei); dall’altro una visione temporale molto ampia, articolata in circa un sessantennio di attività, di formule e ricerche visive estremamente eterogenee per la ricerca teorica a cui si affacciano.
E in questo “case study” si concretizza un sincretismo storico artistico contemporaneo che si aggancia a casi di collezionisti come Giuseppe Panza, ambiziosissimo industriale aperto all’arte americana; il che dimostra come quella frattura della guerra fredda vissuta in senso politico abbia invece portato artisticamente un processo osmotico rilevante e decisivo, come acutamente colto da Francesco Arcangeli e Carla Lonzi. 
Il rapporto Duchamp e l’antico, già impostato in Macchia e stella (Joan&Levi, 2014) un paio di anni fa, risponde a questa visione della scienza della produzione artistica incardinata stabilmente  nell’esegesi ermetica, a partire dal vecchio testamento al Libro mistico di Balzac o ai Fiori del male di Baudelaire ove, con l’accostamento a Wagner, si rinviene il linguaggio diafano, orfico primoridale, che riesce a parlare dei sentimenti. Da qui quel senso del corpo nudo, a cui presumibilmente vuol dare quel senso di “erotismo” (?) colto nell’atto performativo del gesto classico e naturale dello “scendere le scale”; una sorta di primitivo senso del ritorno alla visione di una mimesis naturalistica, filtrata e visionaria. Un rapporto tra arte e scienza (cfr. Oltre cura di Luciano Caramel - Il Premio Michetti 2016 a) visto alla stessa stregua di Leonardo.
Un senso dell’ “Oltre, nel cosmo, nell’incognito degli universi”, nel vaticinio proprio di quegli anni; è Carlo Rovelli, illustre fisico teorico,  che rammenta nelle sue Sette lezioni di Fisica (Adelphi, PB 2014, p. 11) che “la scienza ci mostra come meglio comprendere il mondo e sottolinea “quanto vasto sia ciò che ancora non sappiamo”; e ancora “il pensiero scientifico si nutre delle capacità di vedere le cose in modo diverso da come le vedevamo”; tant’è la conseguente sofferenza e lo straziante universo di Manzoni, ostracizzato “dall’ordine borghese”, abile a giocare con le figure velate degli Achromes, magrittianamente impostate.
In questo display cognitivo, l’universo degli aspetti convergenti si imposta quasi feticisticamente a rebour questo ragionamento fatto da “sinestesie” di rapporti temporali, costruite e pronte ad esser decostruite nei vari rapporti; così come nel paragone tra le arti -per la costruzione di quella visione tra “buon governo e critica d’arte”, intesi in senso longhiano.
È un testo che va letto, in conclusione, nella sua interezza, ma estrapolato nelle sue parti, scelte come programma universitario, per esempio, per un corso di Storia della critica d’arte o di Storia dell’arte contemporanea – certamente. E al corredo di note, ricchissime di dati, non solo bibliografici. Un play within the play. Ma non solo.
Nel settore “contro la pedanteria” penso  si debba “cogliere” qualcosa in più. Riflettere soprattutto su quelle letture importanti, quei testi da leggere e rileggere, non solo per gli storici dell’arte, ma per quanti, aperti alla cittadinanza attiva e alla “sfera pubblica” lavorano fattivamente alla ricerca di un prodotto culturale colto nella sua fattispecie e pronto per esser portato fuori; fuori dalle aule universitarie, dalle biblioteche, dagli archivi; magari nei musei, per farli vivere degnamente, fuori da certe metafore commerciali, e pronti alla vita, alla ricerca della parola che l’opera d’arte comunica e del suo valore civile; una sorta di riflessione da manuale per spin-doctor per l’arte moderna e contemporanea e per la “politica” che crea benessere sociale. Il medium metodologico, quasi da “Momento Eureka” (considerata la fase di star-up, teorizzata sic et simpliciter, e oggi da interpretare nel senso Glocal del “qui e altrove”), è pronto con le sue buone pratiche, da leggere e rileggere.


Michele Dantini, Arte e sfera pubblica. Il ruolo critico delle discipline umanistiche, Donzelli, 2016, pp. 408.  

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