"Il ruolo critico delle discipline umanistiche", così recita il sottotitolo, si presenta
nelle nostre librerie con un dettaglio in copertina di Domani chi sa di Piero Manzoni, opera del 1956 della Fondazione
Manzoni di Milano.
Scelta interessante; fa pensare. Va oltre il gusto personale
dell’autore e dei suoi studi; direi sia da intendere come una domanda aperta, un invito
per l’arte contemporanea (e la contemporaneità) da porsi nelle sue varie sfaccettature.
Sì, perché le questioni sono sempre aperte, lo sappiamo! E le domande sono le
ultime a sparire.
Il volume, pubblicato da Donzelli, si presenta con quattrocentro-otto
pagine; dopo l’introduzione, che non è una semplice premessa di metodo ma un
chiaro disegno critico di questo prodotto, egli articola la sua opera
sostanzialmente il tre parti: Immagini e parole; sciami, migrazioni, morfologie
e, in conclusione, una dichiarazione d’intenti (la definirei) con dieci libri
“colti” contro la pedanteria. Due precisi blocchi distinti, pronti per la
lettura.
Con un impianto del genere è naturale che gli stimoli
proposti possano esser molteplici e multiformi,
colti in un senso verticale della lettura, una visione diacronica alla
Chomsky. Sì, perché, nell’approccio applicato, chiaramente interdisciplinare,
appaiono quegli stessi dati che interagiscono con la visione di un universo, un
macrocosmo di effetti, rigenerante, volto al rinnovamento.
L’opera ha un assetto che rammenta – nella prima parte - la Storie dell’arte di Gianni Romano (lo
studioso di Mantegna e del Rinascimento) pubblicate dallo stesso editore più di
un decennio fa; ma la scelta degli interlocutori stavolta cade direttamente su
Panofsky, Gombrich, Warburg, Longhi e Baxandall. Una scelta ardita, potrebbe
sembrare. In verità si danno delle risposte mirate, partento già dal numero
delle pagine: per Panosky e Longhi sono state dedicate trenta pagine (il primo,
per la precisione 34), contro le ventisei a Baxandall, venti a Warburg (in
compagnia di Nietzsche e Splenger) e diciotto a Gombrich; chi legge Michele
Dantini sa bene che questi dati sono da tenere nella giusta considerazione.
L’esigenza teorica dello studioso è quella di presentare
un’ossatura chiara, precisa, attenta all’approccio metodologico della lettura
dell’opera seguendo il principio della contaminazione dell’arte contemporanea e
della visione comparata ai vari fenomeni
della produzione culturale europea e internazionale. E sì, perché di
Europa e di America si parla, chiaramente nella seconda parte, in medias res questa volta, tra Duchamp, Le
Corbusier, Manzoni e L’arte post bellica (uno dei suoi cavalli di battaglia).
L’auotore parte dalla giustapposizione tra Panofsky ed
Heidegger, sviluppando la descrizione di quel “Pantheon personale” di Panofsky
tra le due guerre; inserisce Durer in una “triade di eroi culturali”, con Kant
e Goethe; un genio nazionale tedesco che entra in contatto con le immagini per
antonomasia della storia del pensiero, con un “occhio storico disinteressato”
(p. 28).
È infatti questa la visione di Michele Dantini, da sempre alla ricerca di una nuova missione
per la storia dell’arte (invocando quella terza, continuamente richiesta, ma assente
- fuori dai criteri di valutazione della scena universitaria, rannicchiata
nella sua “cultura antiquaria”). In
questa prospettiva l’attività dello storico e del curatore deve rinnovarsi,
all’interno di un contesto che rischia di non raggiungere l’upgrade adeguato alle proprie
potenzialità e alle nuove sfide; un contesto che cerca nuovi punti di riferimento,
degli eredi consapevoli e stabilmente incardinati in strutture meno precarie e
secondo procedure meglio definite.
Insomma una prospettiva lata, pervasa dal coinvolgimento di
buone pratiche per un modello attuale ancora da costruire saldamente; alla
ricerca di nuove sfide, pronte per essere attuali!
Filosofo di formazione,
storico dell’arte nel perfezionamento in Normale con Paolo Fossati,
Paola Barocchi ed Enrico Castenuovo, l’approccio di Dantini come studioso è sicuramente
differente e si vuol imporre come “opposizione politica” propositiva per questa
panoramica storico artistica.
Quindi, se la lettura dell’opera è l’obiettivo primario alla
base della conoscenza e della sua evoluzione, il piano si amplia alla
descrizione e all’interpretazione del suo senso.
“Arte post bellica” è la prospettiva di una nuova formula di
studio che apre fronti differenti. È una riflessione molto raffinata sul metodo,
che coincide con l’uscita del numero monografico sullo stesso argomento su “Predella.
Journal of visual art”. Il momento è infatti decisivo per la ricostrizione di
un contesto che era poco definito nella sua complessità; ora si assemblano in
una questa miscellanea di aspetti che si proiettano su casi specifici della
ricostruzione della nuova identità di quattro nuove generazioni, come le
definisce, “da Fontana a Manzoni a Paolini e De Dominicis, da Cattelan a Cuoghi”.
Un momento storico di ampio respiro, che si dispiega in un panorama ricco di
proposte visive, le cui formule andrebbero ancora inquadrate secondo l’ausilio
di una “connoissourship specifica,
attendibile, spigliata..... e perspicace”(cit. p. 225). Quindi la domanda
chiave da porsi “quali sono i rapporti, in ambito contemporaneistico, tra
filologia e mito, ricerca storica ed egodocumento?”. Ecco che finalmente si pone
a livello teorico un nuovo punto di partenza sui metodi. Cercare una risposta
può aiutarci a ricollocare il “punto d’osservazione” dello studioso e –
conseguentemente – del critico. Da una parte l’interrogativo si pone sull’assetto
culturale della visione del critico-curatore (e il suo rapporto con il
gallerista, aggiungerei); dall’altro una visione temporale molto ampia,
articolata in circa un sessantennio di attività, di formule e ricerche visive
estremamente eterogenee per la ricerca teorica a cui si affacciano.
E in questo “case
study” si concretizza un sincretismo storico artistico contemporaneo che si
aggancia a casi di collezionisti come Giuseppe Panza, ambiziosissimo
industriale aperto all’arte americana; il che dimostra come quella frattura
della guerra fredda vissuta in senso politico abbia invece portato artisticamente
un processo osmotico rilevante e decisivo, come acutamente colto da Francesco Arcangeli
e Carla Lonzi.
Il rapporto Duchamp e l’antico, già impostato in Macchia e stella (Joan&Levi, 2014) un
paio di anni fa, risponde a questa visione della scienza della produzione
artistica incardinata stabilmente nell’esegesi
ermetica, a partire dal vecchio testamento al Libro mistico di Balzac o ai Fiori
del male di Baudelaire ove, con l’accostamento a Wagner, si rinviene il
linguaggio diafano, orfico primoridale, che riesce a parlare dei sentimenti. Da
qui quel senso del corpo nudo, a cui presumibilmente vuol dare quel senso di
“erotismo” (?) colto nell’atto performativo del gesto classico e naturale dello
“scendere le scale”; una sorta di primitivo senso del ritorno alla visione di
una mimesis naturalistica, filtrata e
visionaria. Un rapporto tra arte e scienza (cfr. Oltre cura di Luciano Caramel - Il Premio Michetti 2016 a) visto
alla stessa stregua di Leonardo.
Un senso dell’ “Oltre, nel cosmo, nell’incognito degli
universi”, nel vaticinio proprio di quegli anni; è Carlo Rovelli, illustre
fisico teorico, che rammenta nelle sue Sette lezioni di Fisica (Adelphi, PB 2014,
p. 11) che “la scienza ci mostra come meglio comprendere il mondo e sottolinea “quanto
vasto sia ciò che ancora non sappiamo”; e ancora “il pensiero scientifico si
nutre delle capacità di vedere le cose in modo diverso da come le vedevamo”;
tant’è la conseguente sofferenza e lo straziante universo di Manzoni,
ostracizzato “dall’ordine borghese”, abile a giocare con le figure velate degli
Achromes, magrittianamente impostate.
In questo display
cognitivo, l’universo degli aspetti convergenti si imposta quasi
feticisticamente a rebour questo
ragionamento fatto da “sinestesie” di rapporti temporali, costruite e pronte ad
esser decostruite nei vari rapporti; così come nel paragone tra le arti -per la
costruzione di quella visione tra “buon governo e critica d’arte”, intesi in
senso longhiano.
È un testo che va letto, in conclusione, nella sua interezza,
ma estrapolato nelle sue parti, scelte come programma universitario, per
esempio, per un corso di Storia della critica d’arte o di Storia dell’arte
contemporanea – certamente. E al corredo di note, ricchissime di dati, non solo
bibliografici. Un play within the play.
Ma non solo.
Nel settore “contro la pedanteria” penso si debba “cogliere” qualcosa in più.
Riflettere soprattutto su quelle letture importanti, quei testi da leggere e
rileggere, non solo per gli storici dell’arte, ma per quanti, aperti alla
cittadinanza attiva e alla “sfera pubblica” lavorano fattivamente alla ricerca
di un prodotto culturale colto nella sua fattispecie e pronto per esser portato
fuori; fuori dalle aule universitarie, dalle biblioteche, dagli archivi; magari
nei musei, per farli vivere degnamente, fuori da certe metafore commerciali, e
pronti alla vita, alla ricerca della parola che l’opera d’arte comunica e del
suo valore civile; una sorta di riflessione da manuale per spin-doctor per l’arte moderna e contemporanea e per la “politica”
che crea benessere sociale. Il medium metodologico,
quasi da “Momento Eureka” (considerata la fase di star-up, teorizzata sic et
simpliciter, e oggi da interpretare nel senso Glocal del “qui e altrove”), è pronto con le sue buone pratiche, da
leggere e rileggere.
Michele Dantini, Arte
e sfera pubblica. Il ruolo critico delle discipline umanistiche, Donzelli,
2016, pp. 408.